venerdì 26 ottobre 2012

Racconto di ottobre

Ieri notte, rientrando a casa prima di salir le scale mi son fermato "a guardare una stella..." avrebbe detto Dalla...no, prima di salir le scale mi son fermato a guardare le cassette della posta all'ingresso della palazzina dove abito. Semivuote, come sempre.
Ho cominciato persino a dubitare della loro utilità. Ormai servono a custodire corrispondenza inutile o sgradita. Posta pubblicitaria, bollette, santini elettorali, proposte di abbonamenti o prestiti vantaggiosi, raccomandate che -- quando va bene -- contengono comunicazioni dell'amministratore di condominio. E, sporadicamente, poco altro.
Non ricordo più quando ho ricevuto l'ultima lettera scritta a mano da una persona cara. Le cartoline arrivate nell'ultimo anno si contano sulle dita di una mano.
Non scriviamo quasi più. Al massimo digitiamo. Oggi ci sono gli sms, le e-mail, facebook e gli altri social forum, le web cam, le chat, i messenger, skype, gli mms, i blog, i forum. Tutto è veloce, multimediale, in tempo reale. Annulliamo le distanze fisiche, azzeriamo il tempo.
Il pericolo è che anche i pensieri, le idee, subiscano questa liofilizzazione, che il contenuto si appiattisca sull'arida contrazione del contenitore.
Non credo che corra questo rischio chi è abituato a far lavorare la testa e chi è comunque cresciuto usando carta e penna (e qualcuno anche calamaio): può permettersi il lusso delle nuove tecnologie restandone immune e sapendo come evitare pericolosi contagi tra forma e sostanza.
Sono un po' preoccupato, invece, per le ultime generazioni, quelle che non sono nate sotto un cavolo (o portate da una cicogna) ma allegate a una e-mail o notificate da una bustina nel display di un tablet. A loro manca un passaggio storico fondamentale, il gigantesco anello di congiunzione che c'è tra i segnali di fumo e "tvb cmq vfc", tutto il lungo guado che ci ha fatto emozionare, gioire, disperare, trepidare su un foglio di carta, una busta (chiusa leccando i lembi) e un francobollo.
Auguro a queste generazioni di non perdere contatto con la lingua scritta, piena di sfumature che la sintassi della tecnologia impedisce di apprezzare, auguro di provare l'emozione (e la istruttiva difficoltà) della scrittura di un testo sganciata dall'assillo che arrivi in tempo reale. Perchè scrivere non è semplicemente ammassare vocali, consonanti, acronimi e sillabe in ordine sparso e impersonale.
Qualche volta va bene pure l'sms, ma non bisogna mai perdere la capacità di dare ossigeno ai pensieri, riassaporare il piacere di una lettera da affidare al tempo, scritta a penna, con cancellature, righe storte e firma autografa.
Una specie di messaggio nella bottiglia, nel bel mezzo di un'epoca in cui dentro le bottiglie (di plastica) è più probabile trovarci una sim card.


giovedì 20 settembre 2012

Racconto di settembre


Una sera dell'estate del 1991 dovevo andare insieme ad amici ad assistere a un concerto di Fabrizio De Andrè alla Fiera di Cagliari. Con prudente anticipo, già da settimane avevo comprato i biglietti per me e i miei amici.
La sera dello spettacolo, i cancelli della Fiera furono presi d'assalto, come ampiamente prevedibile.
L'area destinata al concerto, all'interno dello spazio fieristico, era ulteriormente recintata. C'era pertanto un doppio filtro: all'ingresso della Fiera un primo controllo soltanto visivo dei biglietti, all'ingresso dell'arena il controllo vero e proprio con il distacco dei tagliandi. I posti non erano numerati.
Un'ora prima dell'inizio furono aperti i cancelli esterni e io, con il biglietto bene in vista per non essere bloccato, mi precipitai di corsa verso l'ingresso dell'arena per occupare posti per me e la mia compagnia.
Una volta giunto al varco della platea, mi resi conto di aver perso il biglietto durante la corsa sfrenata tra la gente: mi era sfuggito di mano ed era finito chissà dove! Guardai la calca che ormai mi aveva raggiunto. Il mio biglietto era sicuramente là in mezzo, ma soltanto pensare di cercarlo faceva venire il mal di testa.
Allibito e quasi sfiduciato, tornai faticosamente indietro per cercarlo, avvisando i miei amici di entrare e tenere un posto anche per me, casomai fossi riuscito a recuperare il biglietto.
Cercare per terra andando controcorrente in mezzo a quella fiumana si rivelò pressoché impossibile.
E così, dopo qualche minuto, lasciate sfilare le migliaia di persone che andavano a sedersi comodamente, rifeci mestamente il tragitto in direzione inversa, ispezionando palmo a palmo il selciato. Arrivai poco a poco sino al cancello esterno della Fiera dove presumibilmente mi era caduto il biglietto. Chiesi senza troppa convinzione agli addetti alla sorveglianza se per caso avessero rinvenuto un tagliando ancora intatto, ma ricevetti soltanto scrollate di spalle e secchiate di distaccata commiserazione.

Ero ormai rassegnato a rinunciare in un modo così assurdo al concerto, quando notai, a ridosso di un muro, un pezzo di carta colorata accartocciato e calpestato, confuso in mezzo ad altre cartacce.
Mi avvicinai con perplessa speranza e lo raccolsi. Lo aprii con cura, mentre il sangue riprendeva a circolare vorticosamente nelle vene.
Marchiato da inconfondibili tracce di suole di scarpe, avevo in mano, intatto, il biglietto! Avevo ritrovato il biglietto! Incredulo, tirai un sospiro di sollievo di cui conservano ancora il ricordo all'Istituto Eliografico della Marina Militare e tornai all'ingresso dell'arena dove, finalmente, dopo che la maschera ebbe strappato il suo dannatissimo tagliandino, potei accedere anch'io alla platea.
Mi diressi con aria trionfante verso i miei amici, un po' preoccupati e raccontai con calma l'accaduto, mostrando il biglietto miracolosamente ritrovato.
Soltanto allora prestai attenzione al numero di serie, molto basso. Controllai i biglietti dei miei amici. I numeri di serie erano totalmente diversi dal mio e tutti consecutivi perché appartenevano allo stesso blocchetto. Ero certo di questo, avendoli acquistati personalmente.
Mancava solamente un numero della sequenza: il mio.
Il biglietto che avevo appena trovato in terra non era lo stesso che avevo smarrito pochi minuti prima.

giovedì 23 agosto 2012

Armonium


L'angelo mi guardava con occhi paterni.
"Penso sia giunto il momento di svelarti uno dei misteri ai quali l'uomo non è ancora riuscito a dare una spiegazione." Il tono della sua voce era conciliante.
Sospirai e trattenni il fiato con una punta di emozione. Sentivo l'importanza del momento. La solennità delle sue poche parole mi aveva catturato completamente.
Ero come un fanciullo che, quando sta per esplorare un nuovo mondo (o, semplicemente, si accinge a compiere un'insolita marachella) non sa a cosa va incontro realmente. Gli basta sentire i brividi correre lungo la schiena.
Ero davvero un fanciullo in un universo di misteri, di cartucce mai sparate, di parole che hanno perso il filo. Ero pronto a non perdere nemmeno una sillaba.
L'angelo capì che pendevo dalle sue labbra. Il suo sguardo fuggì lontano. Eravamo in un punto indefinito tra la terra e il cielo, tra il passato e il futuro, tra la memoria e la fantasia.
"Vedi, dove ci troviamo adesso possiamo osservare la volta celeste nella sua interezza., dalla Stella Polare alla Croce del Sud. Non abbiamo bisogno che sia notte per vedere le stelle. Esse ci appaiono se abbiamo occhi giusti per guardarle. In qualsiasi momento."
Allargò le braccia e proseguì. "Se ti fermi a osservare attentamente il firmamento e stendi su di esso un immaginario pentagramma, vedrai che la disposizione dei corpi celesti non è casuale. E' l'Armonium."
Probabilmente avevo la bocca già un po' aperta dallo stupore, perché l'angelo si lasciò scappare un sorriso di compiacimento. "Sai chi l'aveva intuito? Pitagora, che studiò le coincidenze tra musica, matematica e natura."
Non ricordo se chiusi gli occhi per fantasticare. Ma ricordo benissimo le sue parole.
"L'Armonium è il sistema stellare e planetario nel quale ogni corpo celeste rappresenta una nota musicale. Quindi, sovrapponendo il pentagramma immaginario in una certa porzione di cielo, le stelle e i pianeti (più o meno grandi, più o meno luminosi), compresi tra il primo e l'ultimo rigo, formano uno spartito eterno, preciso e dalle infinite combinazioni. Se, infatti, ruoti il pentagramma su se stesso oppure lo fai scorrere verso lo zenith o, viceversa, verso l'orizzonte, la musica scritta nel cielo sarà ogni volta diversa."
Avevo sempre sospettato che la musica venisse dal cielo. In quel momento ne ebbi la certezza.
Cade sulla terra come neve invisibile e si poggia sull'anima dei musicisti per poter essere da loro liberata affinché possa tornare in cielo.
La musica è fatta per essere suonata. E' già tutta scritta. Appartiene al cielo ed è percettibile soltanto dall'anima.
Suonarla significa liberarla. Tutti coloro che cantano o lasciano uscire delle note da uno strumento musicale non fanno altro che restituire la musica presa in prestito dallo spazio infinito.
Da quel momento, e forse per sempre, guardo il cielo con occhi diversi.

giovedì 26 luglio 2012

Trovami nei tuoi sogni

Ciao Paola, il sole che ci ha fatto incontrare splende ancora molto alto e le impronte dei nostri piedi nella sabbia fredda di dicembre non sono state cancellate dalle onde del bagnasciuga.
Tanti anni fa, quando non trovavo più me stesso, ho trovato il tuo abbraccio e da allora non ne ho più potuto fare a meno. Ho scelto di proteggerti e di essere protetto, di essere al tuo fianco.
Ci siamo conosciuti per caso, per una tua telefonata sbagliata, una sequenza di cifre digitate in modo errato. "Pronto?" "Ciao, sono Paola..." "Paola chi?...Ne conosco tre o quattro". Ma quel tuo accento, così leggero e suadente, non mi era familiare. Chissà perché non abbiamo chiuso il telefono, anzi abbiamo parlato fino a scaricare la batteria. E, visto che ero sotto l'ombrellone al Poetto, ci siamo dati appuntamento per risentirci la sera, ognuno a casa propria. A duemila chilometri di distanza.
Da quel momento sei diventata la mia principessa, la complice con la quale sopravvivere alle tempeste, gli occhi da riconoscere in mezzo a miliardi di altri occhi, la voce da distinguere anche nel più assordante dei rumori, la mano da tenere stretta quando sembra di perdere l'equilibrio, il pensiero consolatore quando il destino si mette di traverso.
Abbiamo superato prove molto impegnative, ma senza mai cercare la luna nel pozzo o riempire d'acqua sacchi di iuta. Abbiamo spostato i macigni che potevamo spostare in due, diviso il pane quando ce n'era soltanto per uno dei due. Ci siamo stretti se le coperta era troppo piccola e fuori c'era freddo.
Ho sempre invidiato quella tua capacità di prendere decisioni coraggiose con una semplicità disarmante, quel tuo modo sfrontato di esorcizzare le paure, di restituire la pioggia alle nuvole con lo sguardo. Quella apparente fragilità che fa sembrare forte la mia irruenza. Quel talento che ti ha fatto sopportare con naturalezza un orso come me.
Nutro un'ammirazione quasi religiosa per il tuo spirito benedettino, minimale e discreto, che ti fa trarre dalle piccole soddisfazioni quotidiane l'energia per aggredire i grandi problemi della vita. E' uno dei segreti per vivere bene.
Ti avviso che ho intenzione di dirti ancora per tanti anni che provo un'immensa tenerezza ogni volta che fingi interesse quando ti propongo di guardare con me, per la millesima volta, una puntata del commissario Maigret con Gino Cervi. Io che amo tanto il bianco e nero e le atmosfere retrò mi illudo di averti convinto ad apprezzare certi capolavori con la frase "Ma ci pensi che siamo l'ultima generazione che ha ancora ricordi in bianco e nero?".
Sino a Maigret ci arrivi, ma il jazz no, proprio no. La frase ad effetto non ha funzionato sino a quel punto. Ma va bene lo stesso.
Non posso pretendere di colonizzare i gusti di chi mi ama. Fai già tanti sforzi, non devo approfittarne.
Pensare che per me hai abbandonato la tua terra. Per un salto nel buio, in fondo. Vorrei farti capire appieno quanta dolcezza invade i miei occhi quando ti vedo davanti al tuo portatile, con cuffie e microfono, mentre parli con tua figlia, così lontana. Ti vedo in controluce, illuminata da una piccola abat-jour. Che Dio ti conservi sempre così serena, amore mio.
Stanotte, nella nostra camera da letto con le finestre nel tetto, mi sono addormentato guardando una stella. Ma non era una stella del cielo, eri tu che dormivi accanto a me, Paoletta. E mentre ascoltavo il respiro leggero del tuo sonno, pensavo al tuo sorriso che, dopo tanto tempo, sa ancora commuovermi ed emozionarmi. Pensavo anche che soltanto un'anima sensibile come te poteva assistere anziani ed infermi come fai tutti i giorni, con una leggerezza che aiuta a sollevare la croce. Quella stessa croce sulla quale tanti altri, invece, si appoggiano per compassione, finendo per appesantirla.
Tanti anni fa abbiamo iniziato un valzer lento, io che non so ballare e tu che balli benissimo. La musica la sentiamo solo noi due, gli applausi del pubblico non ci interessano. Per stare bene con te posso essere me stesso, non ho alcun bisogno di fingere di essere qualcun altro. Con il passare del tempo, io conterò le tue nuove rughe e tu conterai i miei capelli sempre più bianchi. E sarà bello perdere il segno e dover ricominciare, magari perché senza occhiali non ci vedremo più tanto bene.
Ma noi sappiamo ridere anche del passare del tempo.
Scaldami ancora cento anni con quel sorriso, cercami sempre nel posto più sicuro del tuo cuore, accompagnami nel viaggio, tienimi la mano nel buio, aspettiamo insieme un'altra alba. E se ci dovessimo addormentare, trovami nei tuoi sogni.